Poche volte nella vita ci siamo trovati davanti al sublime. E’ successo oggi visitando due tempi giainisti a Monte Abu che se li avesse visti Stendhal (quello della sindrome che colpisce gli amanti dell’arte di fronte al capolavoro) sarebbe morto sul colpo. Il marmo bianco, a volte rosa, si trasforma in merletto, con una raffinatezza unica. Il primo tempio, Vimal Vasahi, ha una foresta di colonne intarsiate, circondata da 58 celle con le immagini divine e una galleria di sculture di siderale bellezza per precisione, fantasia, quantità. Al centro c’è il santuario centrale dedicato - indovinate un po’ a chi? - a quell’Adinath che ci aveva preso di mira non avendo noi forse osservato i suoi precetti (non uccidere mai un essere vivente, zanzara o formica che sia). Ci scrutava con gli occhi aperti, come dicesse “Adesso avete capito chi sono, no?”. Accanto c’è la Casa degli elefanti che vanno in processione verso il tempio e poco più in là il tempio numero due, Luna Vasahi, che al centro della volta sprigiona un enorme fiore di loto multistrato di bellezza stratosferica, un ricamo impensabile a considerarlo di marmo. E poi storie di queste divinità raccontate minuziosamente, ricchissime di figure che sgorgano dalla devozione, dal virtuosismo e dalla religiosità di chi le scolpì sette secoli fa, quando Monte Abu era una sperduta montagna nel deserto. Il cuore dei dodici deviazionisti si è talmente riempito di gioia che, a sera, per raggiungere il nirvana, con Giancarlo abbiamo cucinato per tutti una pasta aglio, olio e pomodoro.