Pietraie a non finire, altri 300 chilometri di massacro. E cinque guadi, di cui almeno due altamente impegnativi e affrontati solo perché tornare indietro sarebbe stato peggio che andare avanti. Per via degli impenetrabili misteri del sistema dei fusi orari, ci ritroviamo alla polverosa partenza un’ora prima. Facciamo qualche provvista, provo a cambiare dollari in banca (capisco alla fine che accettano solo tagli da 50 o 100). Prima speciale tranquilla, poi forte rumore di ammortizzatore in coma. Qualche tentativo, più per capire che per riparare: è l’anteriore sinistro, ha perso un tampone della testa, sciacqua e rumoreggia. Ma finché dura il rumore (230 km) vuol dire che non ce lo siamo perso. Un paio di soste per verificare, tre camionisti fermi nel deserto ci danno una mano per stringere qualche dado. Si scottano toccando le parti roventi. Ridono invece di bestemmiare. Siamo in ritardo e saltiamo lo start di una speciale. Nei primi due guadi Celestina è come se si tuffasse di testa. Dieci ore a lottare contro la pista che sembra ci voglia respingere, predisponendo agguati e attacchi, imboscate e controffensive col suo esercito di pietra, la polvere, gli improvvisi e ansiogeni banchi di sabbia. Timbriamo nell’ultimo minuto consentito e ci avviciniamo all’attendamento. Il campo è una visione da day after. Tutte le macchine a bocca aperta, sollevate, piegate e piagate. Ne mancano almeno 40. Gli americani del VW ci cambiano l’ammortizzatore (compensati con pacco di bresaola). Cena alla mensa, tenda, alle 9,20 siamo nei sacchi a pelo. Fa freddo e siamo distrutti. Ma sopravvissuti. E se Dio vuole, la Mongolia è finita.